«Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore».
Queste parole del Concilio Vaticano II (Gaudium et spes, n. 1) manifestano quella nuova attenzione della Chiesa alle sorti terrene dell’umanità che si è fatta esplicita nella Dottrina sociale cristiana.
Giovanni Paolo II ne rivelò il carattere profetico, classificandola come “teologia morale”.
La Teologia della Liberazione, secondo la quale la Chiesa rivela la sua fedeltà al Vangelo prendendo partito per l’immensa moltitudine dei poveri, le diede una dimensione etica concreta. Questa scelta prese corpo in autorevoli documenti dell’episcopato latinoamericano, come quelli di Medellín e Puebla, e nella lettera pastorale dei vescovi degli Stati Uniti Giustizia economica per tutti (1986).
Essi delineano, secondo l’Autore, la visione messianica di un nuovo ordine mondiale, che ha in sé profonde radici bibliche ma manca di concretezza storica.
Come affrontare questo ulteriore passo? Come conciliare l’universalità del messaggio cristiano con le scelte di campo che di volta in volta i cristiani sono chiamati a fare? Due le ipotesi accreditate: sviluppare una più profonda teologia della Chiesa locale, che rimetta a una certa sua autonomia le scelte storiche concrete; e, nello stesso tempo, mettere in risalto quel carattere “antagonista” del regno di Dio – che è nel mondo ma non del mondo – tanto presente negli scritti del Nuovo Testamento.
Vittorio Falsina
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